Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXI – 10 febbraio 2024.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
Come la corteccia visiva elabora stimoli
motori, uditivi e visivi separatamente. Le cortecce
sensoriali primarie rispondono anche a stimoli cross-modali: la corteccia
visiva primaria (V1), ad esempio, risponde a stimoli uditivi, ma non è
chiaro se le risposte riflettono impulsi sensoriali o modulazioni
comportamentali attraverso movimenti del corpo evocati dal suono. Matthijs N. Oude Lohuis e colleghi hanno dimostrato che l’attività evocata
dal suono in V1 può essere dissociata in componenti uditive e comportamentali,
con distinti profili spazio-temporali. E poi hanno accertato che in V1 le
attività motoria, uditiva e visiva sono espresse da
profili laminari distinti e separati, da parte di sub-popolazioni di neuroni in
gran parte segregate. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi:
10.1038/s41593-023-01564-5, 2024].
MRD7: una causa rara di disabilità
intellettiva da diagnosticare precocemente. Lo studio per
ritardo psicomotorio dall’età di nove mesi di una bambina che ha attualmente
sette anni, ha consentito a Iris Oliveira e colleghi di focalizzare l’attenzione
sulla diagnosi genetica di MRD7 (mental retardation type 7): una
sindrome autosomica dominante caratterizzata da ritardo mentale, raramente
diagnosticata, anche perché raramente inclusa fra i sospetti diagnostici. Tutte
le tappe dello sviluppo neuromotorio sono in ritardo, è presente ipotonia
assiale in contrasto con l’ipertonia degli arti, che tende a divenire ipertonia
generalizzata; il deficit di sviluppo del linguaggio è più marcato sul versante
espressivo/produttivo; la microcefalia e il difetto cognitivo – costantemente presenti
– comportano la diagnosi differenziale con un lungo elenco di condizioni
genetiche quali la sindrome di Angelman (AS), i disturbi MECP2 o la sindrome di
Mowat-Wilson (MWS).
A volte, oltre ai segni tipici dei
disturbi dello spettro dell’autismo (ASD) e al dismorfismo facciale, sono presenti
crisi convulsive. La diagnosi precoce è auspicabile, perché da interventi
tempestivi e protratti di promozione abilitativa dipende la possibilità di giungere
all’autonomia. [Cfr. Oliveira I., et al., Cureus –
Case Reports 16 (1): e51451, 2024].
Allucinazioni sessuali: un problema di diagnosi
e cura dai molteplici aspetti. Ancora troppi
professionisti di ambito sanitario in tutto il mondo ignorano l’esistenza stessa
delle allucinazioni sessuali, la cui diagnosi e cura è ristretta ai casi in
cura presso psichiatri di ottima formazione e accurata pratica clinica, ossia medici
specialisti che non limitano il proprio intervento all’inquadramento nella
schematica del DSM-5 con prescrizione farmacologica corrispondente, ma
stabiliscono un rapporto conoscitivo col paziente, all’interno del quale è
possibile applicare le procedure efficaci per giungere ad una definizione certa
di questo sintomo.
Con l’eccezione delle aure orgasmiche
nel contesto dell’epilessia, le allucinazioni sessuali tendono a risultare
stressanti e imbarazzanti per la maggior parte dei pazienti; solo in casi di
psicosi in fase acuta delirante possono essere attribuite dal paziente a fatti
materialmente non accaduti, ma solo immaginati come razionalizzazione dell’esperienza
paradossa.
Jan
Dirk Blom e colleghe di un team olandese hanno analizzato 79 studi sull’argomento,
per un totale di 390 pazienti studiati, rilevando che le allucinazioni sessuali
sono più frequenti nelle donne che negli uomini, prevalgono nei disturbi dello
spettro della schizofrenia e giungono fino al 44% dei pazienti cronicamente
ospedalizzati. Nelle donne sono più spesso avvertite come percezione nell’area
del clitoride in assenza di eccitazione erotica; talvolta appaiono come
esperienza fisica dell’orgasmo in assenza dello stato mentale coerente con l’acme
del piacere.
I ricercatori concludono che non solo è
necessario proseguire gli studi per definire la base neurale di questi sintomi,
ma è opportuno fare opera di insegnamento circa l’esistenza e i caratteri di
queste manifestazioni presso medici, chirurghi, psicologi e paramedici,
affinché indirizzino le persone che sembrano esserne affette a psichiatri
esperti per una precisa diagnosi. [Cfr. Harvard Review of Psychiatry 32 (1):
1-14, Jan-Feb, 2024].
Una delle tante falsità televisive
ripetuta migliaia di volte senza smentita. Non è vero ciò
che ripete ossessivamente una pubblicità televisiva, ossia che “per la scienza
è impossibile distinguere un urlo di rabbia da un urlo di felicità”. È
assolutamente falso. Se è possibile che ciascuno di noi, a un semplice ascolto,
possa avere difficoltà in alcuni casi a distinguere le due opposte emozioni in
una vociferazione spontanea, l’analisi dello spettrogramma acustico di un urlo
offre elementi diacritici ben distinti. Semplificando, si può spiegare così la
differenza ad un ascolto attento: le frequenze sonore dell’urlo di gioia sono
più prossime a quelle della voce cantata, quelle dell’urlo di rabbia sono più
prossime a quelle di un ruggito. [BM&L-Italia,
febbraio 2024].
Nel cervelletto la chiave dell’adattamento
al volo nell’evoluzione animale. Nella storia dei
vertebrati non meno di tre volte si è sviluppata la capacità di volare: negli
pterosauri del Triassico, in una linea di dinosauri del Giurassico da cui
discendono gli uccelli moderni e tra i progenitori dei pipistrelli nel primo
Cenozoico. Il volo, oltre ai noti adattamenti dell’organismo che includono ali
e ossa pneumatiche, richiede una specifica fisiologia dell’encefalo. Amy Balanoff e colleghi guidati da Paul Vaska,
usando una mappa PET dell’attività cerebrale dei piccioni in volo e a riposo e
usando tale mappa per interpretare l’evoluzione morfo-funzionale dell’encefalo
nei dinosauri non aviari, hanno identificato nel cervelletto la chiave dell’adattamento
al volo dei Maniraptora. [Cfr.
Balanoff A., et al. Proceedings of the Royal Society B,
31 J, 2024].
La Società Nazionale di Neuroscienze Brain,
Mind & Life Italia contro le armi. Le armi da fuoco sono concepite
per uccidere o ferire, e dunque non si comprende come possa essere legale la
loro vendita e il loro possesso da parte dei civili, se il loro uso costituisce
reato. La nostra società scientifica, dopo una discussione sull’altissima
letalità e sui gravi esiti patologici di ferite anche piccole del cervello da
armi da fuoco, ha deciso di rilanciare la proposta di proibire per legge il
possesso di armi, riservandole ai corpi militari e di pubblica sicurezza.
Già molti anni fa abbiamo cercato di
portare all’attenzione dei politici la proposta, nata da un incontro con una
ricercatrice americana in vacanza a Firenze che studiava le conseguenze ancora
sconosciute delle lesioni cerebrali non mortali da armi da fuoco. In quell’occasione,
si suggeriva anche un periodo di 5 anni per la riconversione dei rivenditori di
armi in titolari di altre attività, con l’aiuto dello Stato. La sanzione ai
trasgressori era stata ipotizzata da un penalista come una grave pena
detentiva, con la possibilità alternativa di un decreto di espulsione a vita
dal territorio nazionale come persona non desiderata.
La completa eliminazione delle armi
presso i civili, oltre a salvare la vita a tante persone, faciliterebbe molto
le indagini sui crimini e costituirebbe un progresso di civiltà senza
precedenti. [BM&L-Italia, febbraio
2024].
L’origine irrazionale dell’uso
anacronistico di talismani per combattere le fobie. Quando
i più importanti e frequenti disturbi psichiatrici erano divisi in nevrosi e
psicosi, la nosografia prevedeva la categoria della nevrosi fobica,
considerata lo stato patologico della personalità fobica. Tra i tratti e i comportamenti
caratteristici dei fobici, i manuali includevano il portare con sé dei
talismani per proteggersi da ciò che temono. Ricorrere a oggetti cui si
attribuisce irrazionalmente un potere inesistente, vuol dire impiegare il “pensiero
magico”: fenomeno che è stato oggetto di studi approfonditi. Oggi, anche se è
stata abolita quella categoria nosografica, le persone che vivono stati
psichici di allarme e sofferenza fobica sono numerose e la loro vulnerabilità è
sfruttata, come e più che in passato, da ciarlatani televisivi che millantano
il possesso di poteri divinatori e taumaturgici, e spesso vendono, fabbricano o
“consigliano” l’uso di “oggetti magici”.
Gli antichi Romani avversavano questo
pensiero “superstizioso”, come del resto i Greci, il cui irrazionale – come abbiamo
imparato tutti da Dodds (I Greci e l’irrazionale) – aveva profonde
radici culturali. Infatti, la diffusione medievale di maghi, fate, filtri d’amore,
pozioni, sortilegi, amuleti e malefìci ha principalmente
origine dai popoli barbari e dai popoli arabi.
Può aiutare lo studio dell’origine della
parola “talismano”: l’etimologia è incerta, ma l’opinione prevalente sostiene una
derivazione dall’arabo-persiano tilism, tilasm, ecc., forme concettualmente connesse al valore
semantico del “portare sempre con sé”. Infatti, queste forme lessicali arabe
derivano dalla parola greca telesma che,
letteralmente, si traduce “pagamento, spesa, certificato”, ed era impiegata particolarmente
per denominare i documenti di certificazione di pagamento che era necessario
portare con sé per dimostrare ai controlli la proprietà di un bene, di un
oggetto o del bestiame.
Dunque, dal “portare con sé” razionale
per obbligo civico, al portare con sé irrazionale per “virtù magica”. [BM&L-Italia, febbraio 2024].
Bibbia: la correzione di un errore
linguistico restituisce logica e coerenza storica all’esegesi.
La linguistica non è una neuroscienza, ma l’applicazione rigorosa dei suoi
paradigmi e delle sue nozioni, come abbiamo visto nel corso degli anni, spesso
costituisce un prezioso ausilio alla razionalizzazione della conoscenza e talvolta
consente di distinguere e riconoscere se e quanto l’arbitrio di
un autore del passato si possa attribuire a una ragione psicologica individuale,
antropologica o tecnica. Seguire simili tracce può condurre ad approdi di conoscenza
significativi.
Questa premessa non vuole solo
giustificare l’argomento della notula, vuole anche richiamare l’attenzione del
lettore su tutte le precedenti occasioni in cui abbiamo riferito di contributi
della linguistica per noi rilevanti.
Attestazioni storiche confermano la tradizione
evangelica secondo cui la lingua parlata da Gesù Cristo per farsi intendere da
tutti coloro che lo ascoltavano era l’aramaico, un idioma nato nel paese
di Aramu, terra dell’alta Mesopotamia, ma poi divenuto per ragioni difficili da
sintetizzare una lingua franca di uso ufficiale, commerciale e pratico dovunque
si parlasse l’accadico, il fenicio o l’ebraico (lingue
semitiche del nord) e più oltre, coprendo un’area geografica che andava dal
Nord Africa all’Oriente[1].
L’aramaico giunse a contrastare seriamente il greco come lingua egemone dell’antichità,
venendone soppiantato solo sulla costa mediterranea.
L’aramaico della Bibbia, in particolare
del Vecchio Testamento, è stato erroneamente identificato con la lingua dei Caldei
e definito “caldeo” o “caldaico”, che in latino era scritto Chaldaeus,
Chaldaicus, per un fraintendimento di antichi esegeti
biblici. L’errore nasce da un termine che compare nel libro del profeta Daniele:
kasdim nel testo ebraico (2, 4), che corrisponde
al vocabolo kasdā’ē nel testo
aramaico di Daniele, è stato erroneamente interpretato come il nome di un
popolo, ossia quello dei Caldei; invece l’esatto significato di kasdim o kasdā’ē
è “astrologi interpreti di sogni”. I Caldei astrologi, chiamati presso le corti
mediorientali per interpretare i sogni, erano famosi, ma il loro idioma era l’accadico,
lingua già scomparsa quando scrivevano i primi commentatori della Bibbia, i
quali sapevano che gli Ebrei, dopo il periodo di schiavitù in Babilonia,
avevano abbandonato l’ebraico per una varietà giudaico-palestinese di una
lingua parlata dagli astrologi. In Occidente cade in questo fraintendimento
anche San Gerolamo, che si basava sull’esegesi indigena (come è facile
costatare nel Commento a Daniele 2,4 e nel Prologo a Giuditta), e
tanti altri dopo di lui, fino a quando, con la Vulgata, l’errore è diventato nozione
corrente.
La questione è stata chiarita con le
analisi linguistiche, che hanno preso le mosse dal cercare l’origine stessa
della parola “aramaico” negli idiomi mesopotamici antichi. Innanzitutto è stato
stabilito che “Arameo” era il nome che si davano gli stessi Aramei. Poi si è
rilevato che ’rm si trova come nome di un paese
o di uno stato nelle più antiche iscrizioni aramaiche; infine, si ha una
precisa attestazione in uno scritto del 471 a.C., in cui si designa in questo
modo la lingua della gente di Jeb o Elefantina: ’rmy * ’aramī. Nella
Bibbia ricorre più volte, particolarmente in apertura dei passi scritti in
aramaico, la specifica ’aramīt, che vuol
dire: “in aramaico” (II Re 18, 26; Isaia 36, 11).
Senza questo studio linguistico non si sarebbe
potuti venire a capo della questione, anche perché le cose erano complicate da
un altro errore, compiuto nella celebre Septuaginta
o Versione dei Settanta o LXX, ossia la traduzione in greco di un antico
testo ebraico del Vecchio Testamento[2]
eseguita da 72 sapienti di Alessandria d’Egitto, in cui l’indicazione ’aramīt, invece di essere tradotta con la parola
greca che vuol dire “in aramaico”, era reso con suristí,
che significa “siriaco”[3].
Non meraviglia che, in tutte le versioni latine di quel celebre testo greco, suristí è tradotto syriace,
alimentando l’oblio plurisecolare sull’aramaico del Vecchio Testamento.
Concludendo, oggi troviamo negli
antichissimi testi biblici ebraici incastonati in aramaico alcuni passi (Esdra
4, 8-6, 18; 7, 12,26; Daniele 2, 4b-7, 28) e singoli vocaboli (Genesi
31, 47; Geremia 10, 11), nella stessa lingua delle ultime parole pronunciate
da Gesù e riportate da Matteo (27, 46) e Marco (15, 34). [BM&L-Italia, febbraio 2024].
La scrittura sognata: l’affascinate caso
delle origini mitiche della scrittura (parte seconda).
La settimana scorsa abbiamo introdotto l’argomento e presentato il racconto del
sogno del sultano Njoya, da cui si dice abbia avuto
origine la scrittura di Foumban nel Regno di Bamoun.
Oggi proseguiamo con altri due esempi tra loro lontani nello spazio.
Rivelazioni oniriche di origine
soprannaturale, come quelle degli antichi e quella narrata la volta scorsa, non
sono esclusiva del mondo classico e dell’Africa, ma se ne reperiscono anche per
il continente americano: un esempio significativo e ben documentato ha avuto
luogo negli USA, nello stato dell’Arizona.
Nel 1904 un giovane Apache di nome Silas
John Edwards, proveniente dalla Riserva di Fort Apache in Arizona, in sogno
riceve le istruzioni divine per comporre un codice linguistico completo e
originale per la notazione di un idioma apache occidentale[4].
Silas John Edwards, o semplicemente Silas John come lo chiamavano sia gli amici
anglo-americani che i nativi, aveva 91 anni e, sebbene fosse quasi cieco, era
estremamente attivo e cognitivamente efficiente quando Keith H. Basso e Ned Anderson si recarono da lui per scrivere il saggio più
noto su questo sistema di scrittura, pubblicato nel 1973 sulla rivista Science
fondata da Thomas Alva Edison[5].
Era considerato un ex-sciamano[6]
fondatore di una nuova religione, anche se lui non era di questo avviso, in
quanto credeva nell’esistenza di un unico vero Dio, che i suoi antenati nativi americani
avevano a loro modo onorato, ma che non era altri che il Padre Creatore
rivelato da Gesù Cristo[7].
Silas John spiegò che il dono della scrittura lo aveva ricevuto per scrivere 62
preghiere da registrare in traccia imperitura a beneficio delle anime dei
posteri. Leggiamo il suo racconto del sogno: “C’erano sessantadue preghiere che
piovevano come raggi su di me, e Dio mi istruiva e mi diceva quel che dovevo
fare e mi insegnava i canti; mi vennero presentate una per una, e nello stesso
sogno mi venne insegnata anche la scrittura per notarle. Dio ha creato la
scrittura ed essa è discesa sulla terra”[8].
Ritorniamo in Africa, per un altro sogno
creativo del XX secolo, quello che fece Wido Zobo, un giovane membro della tribù Loma
della Liberia, uno dei più antichi stati indipendenti dell’Africa, originario di
Boneketa e impiegato presso la piantagione liberiana
di Firestone. Wido Zobo
sognò di essere faccia a faccia con Dio e lo accusò di aver lasciato il suo
popolo nell’ignoranza senza una scrittura. L’Altissimo replicò che, se i Loma avessero avuto una scrittura avrebbero abbandonato i
propri costumi e sarebbero divenuti superbi. Allora Wido
Zobo giurò che, se Dio avesse concesso loro il potere
della scrittura, avrebbero osservato sempre le tradizioni e conservato il rito
dell’iniziazione segreta. A questo giuramento, il Dio sognato accettò di donare
la scrittura a Wido, ma solo a patto che non la insegnasse
mai a una donna. Wido Zobo
accettò il patto e così ottenne il codice simbolico, secondo la sua narrazione[9].
In realtà, nel 1930 creò un “sillabario” Loma[10]
per scrivere la lingua fino allora solo parlata, e cominciò insegnando il suo sistema
di scrittura agli uomini di Boneketa; poi tornò
presso la piantagione Firestone, e qui il suo codice fu adottato come sistema
di registrazione dei dati per uso aziendale.
Questi due esempi del XX secolo, quando in
tutto il mondo civile più nessuno dubita che i sistemi di scrittura siano un’invenzione
culturale, testimonia la potenza suggestiva dell’antica idea del dono divino
ricevuto in sogno, al punto da continuare ad usarla a dispetto di ogni evidenza
del contrario. [BM&L-Italia, febbraio
2024].
Notule
BM&L-10 febbraio 2024
[1] Dall’Egitto all’Armenia e alla Georgia,
verso nord, e fino all’India attraverso l’Afghanistan a est.
[2] Il testo si discostava un po’ da
quello della Torah tramandato dalla tradizione rabbinica giudaica. La Versione
dei Settanta costituisce ancora il testo liturgico delle Chiese Ortodosse
orientali di tradizione greca.
[3] Probabilmente perché l’aramaico
era così diffuso in Siria da essere creduto la lingua originaria di quel
popolo.
[4] La Lingua Apache Occidentale
è classificata come Southern Athabaskan language (divisa da Goodwin in 5 dialetti o versioni
locali) attualmente parlata da circa 14.000 Apache in Messico e nell’Arizona
centro-orientale: 7.000 in Fort Apache e 6.000 in San Carlos.
[5] Keith H. Basso & Ned Anderson, A Western Apache Writing System:
The Symbols of Silas John. Science 180 (4090): 1013-1022, June 8, 1973.
[6] L’espressione, impiegata nel
mondo di lingua inglese, non è antropologicamente corretta, perché “sciamano” è
termine specifico per designare l’etnoiatra
siberiano; sarebbe più corretto dire “etnoiatra
apache”.
[7] Aveva anche avuto intensi
rapporti con la Chiesa Luterana d’America.
[8] Giorgio Raimondo Cardona, Storia
Universale della Scrittura, p. 96, CDE su licenza di Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1986.
[9] Dalby, 1967 cit. in Robert L. Cooper, Bernard J. Spolsky,
The Influence of Language on Culture and Thought, p. 219, Walter De Gruyter
Mouton 1991.
[10] Cfr. Heduardo
Kiesse, Visualismo
Narrativo – Dissertazione, Isuu, online 7 Feb.
2019.